Elogio della complessità
di Enrico Crispolti
In un certo modo, e anzi a suo modo, Vittorio Fava è un artista sperimentale. Ma non tanto nel senso che si potrebbe subito intendere, e cioè giacché egli nel suo lavoro esce dalla pittura nell'oggetto, e tuttavia praticando questo vi recupera la pittura, quanto perche è intenzionato chiaramente a darsi la libertà di trascorrere da un "medium" all'altro, dalla pittura infatti all'oggetto, che è anche sonoro e luminoso, dalla scrittura poetica al film, dalla scultura all'incisione, dall'oggetto al libro, al mobile.
In questo senso, a suo modo e in stretta funzione della sua necessità comunicativa, ripropone di fatto oggi, dopo circa un decennio di ritorno un po' maniacale e certo restrittivo (di indubbio riflusso) alla pratica esclusiva della pittura (o della scultura), quella libertà della condizione operativa "extra media" (come la definivo in un libro a più voce d'artisti che coordinai nel 1978, e così intitolato) che fu grande acquisto della ricerca negli Sessanta-Settanta.
Che sono poi gli anni stessi nei quali Fava ha compiuto le proprie prime esperienze, sia pure in un ordine di suggestioni fra il neorealista e il pop (con attenzione guerreschiane), costruendo tuttavia già oggetti. Per approdare poi nel 1979-80 ad una pratica segnica e materica condotta attraverso l'incisione (lastre, sfondate, ricerca con il torchio, ecc.).
E tuttavia mi sembra evidente come lo sperimen-talismo di Fava sia interno ai "mezzi" stessi, ciascuno, più che esplicato nell'uso libero di "mezzi" diversi e disparati. E ciò corrisponde del resto alla sostanziale introversione dell'immaginario di Fava, che introietta simboli e segni di disparata origine culturale per costruirsi una dimensione di visionarismo intimo, del tutto proprio, continuamente riproposto attraverso la varietà della propria esperienza anche certo di pratica dei "mezzi". Di fatto Fava è sperimentale non attraverso il linguaggio, ma direi piuttosto entro il linguaggio, in ogni sua possibile determinazione sia formale che mediale. E quindi nella costituzione formale e nella pratica del "mezzo" stesso mira alla soddisfazione di una propria sostanziale urgenza comunicativa. Cioè ogni elemento concorrente alla configurazione espressiva del suo immaginario è fortemente iconico e segnico in senso simbolico, in accentuate suggestioni criptiche e misteriche, in un viaggio interiore che certo è del tutto personale, e personalmente infatti motivato, ma che infine raggiunge il livello profondo degli archetipi psichici e immaginativi.
Qui è presente il lavoro di Fava degli ultimi quattro anni circa, fra libri, sculture (con elementi luminosi), oggetti e dipinti materici, che si legano intimamente all'installazione Cappella primitiva, dell'anno passato, pure presente, e nella quale ha sviluppato anche dunque la dimensione ambientale.
I libri sono oggetti di sorprendente complessità di presenze magiche iconiche, segniche, materiche, spazi di possibili viaggi fantastici nell'ignoto, ove le sorprese sono ad ogni passo, in ogni episodio di pagina plastica, in ogni trapasso a voragine o invece in legami difficoltosi fra una pagina e l'altra. Libri di segni e di pittura, di materia: libri di simbologie visionarie misteriche materializzate: Album di caccia, Pelle di alabastro e cuore di rena nera, Tomo stratificato. La scultura vi si connette nei possibili leggii, ricchi anche di interventi di colore, segnici. Fra la scultura e i libri e la pittura Fava ha realizzato anche un mobile dipinto, nei cassetti del quale sono oggetti di memoria, disparati. Perche la memoria è in effetti il tramite dell' evocazione simbolica: una memoria che intreccia la dimensione individuale con quella collettiva, nella sconfinata remota profondità degli archetipi.
Le sculture sono complesse, e si risolvono in oggetti luminosi, come quello intitolato "Film preistorico", di quest'anno, ove è offerto in una sorta di rotulo in lettura luminosa per trasparenza un contesto di scritture simboliche cuneiformi e altre, su una struttura leggio. Altrimenti di anni fa in particolare sono scatole luminose realizzate con materiali poveri e all'interno delle quali sono altri materiali vari oggettuali o meno; e ne vengono (come in questa vista nel 1986 a Genazzano) proiezioni esterne luminose di implicazione ambientale.
Nella pittura si di spiega più distesamente l'immaginario complesso, irto di visionarietà archetipa, di Fava. Come nel "Trittico primigenio", che celebra lo nascita della materia, del segno e della scrittura, stratificato per velature e insieme materico, spartito fra le diverse identità iconico-segniche di acqua (e oceano, Apophis), terra e notte (Thanatos e Ipnos) o nel "Trittico pittografico", ad ante chiudibili, come un trittico-libro-valigia, dipinto su due lati e lo cui base è in carta lavorata a sbalzo, ove protagonista è appunto l'elemento pittografico, originario, primigenio come il grande quadro "Ascoltando musica in una chiesa barocca", in carta battuta lavorata, ove ritrovi anche appunto elementi di riferimento architettonico barocco, assieme a note musicali trattate a sbalzo.
La pittura di Fava in particolare (ma non quella soltanto) ingaggia in una lettura a più livelli di approssimazione quanto di comprensione. In fondo l'immaginario che lo presiede gioca sulla fluttuazione nell'ambiguità molteplice delle suggestioni e dei rimandi, in un trascorrere senza confini fra differenti livelli, psichico, sensoriale, concettuale, elementi magici e misterici, e improvvise aperture memoriali.
E colpisce lo complessità densa e avvincente del suo tessuto materico stratificato, palinsesto segnico, quanto simbolico. Vale lo pena di ricordare un passo di una pregnante riflessione di Fava sulla propria pittura. "Sento lo diversità della mia pittura visivamente totalizzante e piena, un'arte che nasce dal quotidiano puntare l'occhio fantastico sul flusso e sul riflusso del mare. Una pittura dell'acqua, del fluido e del fluire, del mutevole, della trasformazione, del fantasma di un liquido nei veli pendenti e svolazzanti della trasparenza, della forma in formazione. Qualcosa che affondi nella coscienza collettiva e nell'inconscio primario del nostro umano nascere, esseri non pesci ma stupendamente vivi nell'acqua prenatale. Vorrei nuotare ancora sulla tela con lo stessa vitalità di un feto nel grembo materno. E capire i colori dell'utero e vedere nel grande mare un immenso ventre di madre gravido di pulsazioni e di segni. Inseguire un'arte gravida di natura, una pittura messa incinta dal mare con lo complicità del mestiere di pittore, con la sua metodicità, le sue stagioni. Ma in questa corsa da solo pur voglio tissare la consumazione sociale di un colore e non la distanza che c'è ormai - irreparabile - tra immagi-ne e significato. Perchè un'operazione artistica, finalmente, riparli di sè, del proprio mondo, soprattutto attraverso la forma".
Anche il film è implicato nella medesima fluttuazione metamorfica. Leggiamo ancora: "Quindi fondere la mutevole fluidezza dell'acqua nel dinamismo della proiezione, al sensualismo dell'inquadratura. L'emozione del montaggio, a tutto ciò che è materiale adoperabile come filtro attraverso la pittura e giocare quindi con gli schermi, con le sovrapposizioni, le sovraimpressioni, le stratificazioni grafiche, deliri e accostamenti sulla pellicola, segni di pennino, di pennello, raschiamenti e tentativi di fughe, di fughe, di fughe, dell'imperfetta mano sul meccanico, sull'acetato tentare la corruzione sulla plastica delle tracce di larve, che creano mondi così reali sotto le cortecce di alberi morti".
Sono film, realizzati negli ultimi quattro-cinque anni, ove lettere e parole di scritture cuneifarmi e geroglifici, dipinti appunto direttamente sulla pellicola, si trasformano nel movimento diffondente, in una fluttuazione metamorfica universale rivelatoria. Un universo organico, fisiologico e materico fino alla vermicolazione atomica che diviene dimensione psichica e cosmica insieme.
Questo l'immaginario singolarissimo e raro per complessità e autenticità che domina illavaro di Fava, un "caso" certo nella situazione romana attuale, (e non soltanto in questa, in verità), nel suo accentuato visionarismo, che non accetta condizionamenti, che rifiuta ogni esito di compromissoria cosmesi. Mirato invece come è allo scandaglio profondo e alla vocazione rivelatoria, inseguendola e assediandoci immaginativamente attraverso i "media" più diversi, ma con una sostanziale densa univocità immaginativa, di sconfinate sorprese.
Pubblicato sul catalogo della mostra "Mnemosyne", tenutasi a Palazzo Valentini, Roma 1988.
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